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Per arrivare alle persone, non possiamo passare sopra le persone

Lo scopo di prodotti e servizi è, semplificando, risolvere problemi alle persone. Ne consegue che uno dei motivi di successo è incontrare le persone nei momenti che contano, cioè quelle in cui sono attivamente alla ricerca di soluzioni. E sì, il tempismo è uno degli ingredienti del successo. C’è solo un particolare: non sempre è una cosa Buona.

Partiamo soft per inquadrare l’argomento. Prendi la scena di una commedia che ormai quindici anni fa fece registrare il record di incassi e ridere con le lacrime milioni di italiani: Ti amo in tutte le lingue del mondo.

Il film vede protagonista Gilberto Rovai (Leonardo Pieraccioni), un insegnate di educazione fisica. La prima scena è il nostro eroe intento a preparare una festa a sorpresa per la moglie e curarla in ogni particolare: dai classici festoni a coreografie spiritose e originali – come un improbabile casco con le corna destinato a un suo amico basso e buffo che rende l’accostamento ancora più divertente. Quando gli invitati sono in procinto di saltare fuori, come ogni festa a sorpresa però impone, avviene un particolare: squilla il telefono. È della moglie di Gilberto che, ignara di essere ascoltata dal marito e una ventina di amici, si lascia andare in una chiacchierata bollente e inequivocabile con l’amante.

L’effetto cinematografico che ne viene fuori risponde ai classici cliché della commedia: un ossimoro tra reazioni e contesto, battute e clima nella stanza.
L’ultima scena del frame è emblematica: Gilberto si guarda intorno, gli invitati sono ormai andati via tutti, rimane accanto a lui solo il buffo amico con il cappello strano. Con le corna.

Non esattamente un messaggio che diverte come da programma alla luce di quanto appena appreso!

Messaggio giusto, persona giusta, momento sbagliato: a volte, la questione è molto più seria

Torniamo alla vita reale e purtroppo cambiamo decisamente contesto. In quello che sto per raccontare ci sono poche battute e poco da ridere. Un mese fa ho dato addio a mio padre.

L’ho fatto in un periodo in cui la morte ha un significato diverso, che oltre l’inevitabile impatto emotivo ha dei contorni che prima della pandemia non avevamo preso in considerazione. Ho vissuto gli ultimi giorni cercando di capire quanti saluti e quanti sorrisi avrei potuto rivolgere a mio padre, come riuscire a fare incontrare mio padre e mia madre per l’ultima volta. Siamo stati chiusi in casa, in una stanza, sperando che qualcuno ci chiamasse e ci dicesse qualcosa. E sì, abbiamo appreso che sarebbe morto di lì a poco al telefono.

Prima ancora che accadesse però ho ricevuto una telefonata che ricorderò per molto tempo e che mi fa ancora stare male. Un’agenzia funebre ha pensato farci sapere, tramite mio zio, che dato che la morte era ormai inevitabile e imminente ci avrebbe fatto un buon prezzo per la cerimonia e di chiamare appena sarebbe accaduto senza preoccuparci di cercare altrove altri operatori.

Davvero? Sì.
È qualcosa che ancora mi disgusta e mi fa pensare solo a una parola: sciacallaggio.
sciacallàggio s. m. [der. di sciacallo]. – Azione, comportamento da sciacallo. La ripugnante attività di chi si dà al saccheggio di case e negozi abbandonati in conseguenza di calamità, di chi approfitta del momento di fragilità delle persone per ottenere un qualche tipo di vantaggio.

Con più calma e un po’ di tempo a disposizione sono tornata su questo triste episodio per riflettere di quanto il rischio di incappare in questi comportamenti, o di rendersi protagonisti, sia più che mai diffuso.
A volte, pur non rientrando nella gravità del caso raccontato e in vere azioni di sciacallaggio, il tempismo ha un impatto comunque negativo sulle persone. A volte, il tempismo rende un buon messaggio una gomitata al volto, un pugno dritto allo stomaco.

I motivi per cui ci incappiamo possono essere riconducibili a due fattori ma anche a una sola parola. I due fattori possono essere: cattiveria deliberata o ingenuità. La parola protagonista di questa storia è EMPATIA.

Ricordiamoci che abbiamo a che fare con le PERSONE

Uno dei passi più celebri e ancora oggi diffusi di Dale Carnegie recita: ““Trattando con la gente ricordiamoci che abbiamo a che fare con creature governate non dalla logica ma dalle passioni, impastate di pregiudizi e mosse dall'orgoglio e dalla vanità.”

Per il nostro discorso basta ricordarci che abbiamo a che fare con le Persone. E le persone, a differenza di molti animali, si caratterizzano per sogni e progetti e per la continua ricerca di una versione migliore di sé stessi.

Obiettivi e progetti, sfide e problemi che non sono statici e immutabili ma anzi in continuo divenire.
Non possiamo pensare che i nostri prodotti e servizi si rivolgano al mercato. Che si rivolgano ai clienti. Si rivolgono a PERSONE.

Ma soprattutto, non possiamo neanche pensare che si rivolgono a PERSONE in senso generale. Ma si rivolgono a persone che in un dato momento stanno affrontando un qualche tipo di sfida.

Le loro emozioni sono diverse a seconda del “momento” ancora più della sfida da risolvere.

Ascoltare le persone non basta. Empatizzare è tutto.

Proviamo ad analizzare la storia appena raccontata. Potremmo sintetizzare così la situazione:

Figlia sta per dire addio al padre.
Oltre il dolore, la sua sfida sarà presto quella di risolvere le conseguenti attività burocratiche: spostamento salma, funerali, tumulazione, pratiche e comunicazioni.
In giro ci sarà sicuramente qualche operatore (agenzia funebre ad esempio) che potrà dare una mano e aiutarla a superare nel modo migliore e con meno costi, intesi anche emotivi, la sua sfida.

Un operatore che, appreso del momento, interviene in una fase “prima che succede” o “subito dopo che succede” può vantarsi di tempismo commerciale: sta in fondo intercettando un’esigenza prim’ancora che la persona cerchi da sola di risolverla e di iniziare una valutazione e confronto di più soluzioni.
Ma in realtà e chiaramente, un operatore che agisce in questo modo sta, più o meno volutamente ignorando, che i suoi prodotti o servizi non si rivolgono al mercato. Ma alle persone.

Non siamo esseri freddi e completamente razionali in cerca della massimizzazione del vantaggio. Siamo esseri emotivi che sono sempre e fortemente influenzate dal contesto e dal momento.

Ora, mi rendo perfettamente conto che chi legge può sentirsi pienamente d’accordo con quanto scrivo e cioè ritenere superflua una riflessione di questo tipo, specie se legata come nel mio caso a un momento così delicato, ma a ben guardare è una dinamica più che ricorrente.

In altri casi e contesti, per così dire meno drammatici, avviene spessissimo.

Tatto e impatto ovvero Etica

Se nel nostro discorso adesso introduciamo la parola che è veleggiata sino a qui, ovvero ETICA, le cose appaiono più chiare.

Possiamo definire Comunicazione Etica, una comunicazione in cui le informazioni sono comunicate e presentate sforzandosi che il destinatario sia in grado di comprendere le informazioni e poter decidere esattamente nello stesso modo in cui avrebbe deciso possedendo o comprendendo appieno le informazioni.

Tralasciare l’1% dei fatti rende spesso una comunicazione non etica.

Fornire un dato messaggio quando il nostro interlocutore non è in un momento di piena lucidità o è particolarmente fragile, rende la comunicazione non etica.

Puntare su paura e bisogno, su urgenza, per quanto molti testi della persuasione continuano a indicarli come fattori di successo, rende spesso una comunicazione o azione non etica.

Aaron Mandelbaum, il fondatore di una società di marketing e vendite molto quotata con sede a Atlanta, coglie il punto quando affrontando l’argomento la pone così: “Quando si comunica con un'altra parte, una comunicazione veramente etica implica la considerazione di qualsiasi fattore potenziale che possa influenzare il modo in cui il destinatario comprende - o riceve - le informazioni che vengono comunicate.”

Qui è chiaro che apriamo il vaso di Pandora.

In uno dei libri più famosi sull’argomento, Buyology, Martin Lindstroom espone molte delle tattiche con cui le persone sfruttano momenti e contesti per ottenere un vantaggio senza cercare di apportare reale valore o in modo subliminale.

I classici prodotti di impulso ne sono un esempio. Gomme da masticare e altre leccornie vengono poste proprio in prossimità delle casse in quanto è il punto in cui le persone ovviamente sostano più tempo, e l’esposizione ai bambini di questi prodotti ha un effetto preciso: chiedono, piangono. Si stima che il 75% di questi acquisti sia dettato dal pianto dei bambini o da timore del pianto dei bambini.

In un “caso” che ha fatto scuola, lo spot pubblicitario "Daisy" del candidato alla presidenza del 1964 Lyndon B. Johnson, un bambino gioca con le margherite proprio prima che un'esplosione nucleare scoppi e distrugga tutto. L'associazione è ovvia: vota Johnson o muori in una guerra nucleare. Per studiare l'efficacia dello spot, lo stratega politico Tom Freedman ha recentemente esaminato l'amigdala degli elettori, la parte del cervello che controlla la paura, mentre vedevano lo spot. I risultati? Un notevole aumento dell'attività nell'amigdala. Non dovrebbe essere una sorpresa che Johnson abbia vinto quelle elezioni.
E non biasimo nessuno se leggendo di questo aneddoto e guardando alla politica nazionale o internazionale… pensiate che no, non è cambiato niente.

Qual è la missione di un’azienda? Di un consulente? Di un professionista?

Il giorno dopo che mio padre è morto, è successa anche un’altra cosa. Hanno suonato al citofono e annunciato che vi erano alcune cose da consegnare: era una discreta quantità di cornetti, brioches, prodotti da forno. Non vi era alcun biglietto da visita o altro messaggio che facesse evincere il mittente. C’era scritto solo: vi siamo vicini.

I miei vivono in un piccolo paese della Puglia,i panettieri sono pochi ed è stato facile capire chi avesse inviato la colazione. È stato un momento di gioia in un momento di dolore. Personalmente mi ha ricordato che sì, le brave persone esistono. Le persone che sanno di avere a che fare con PERSONE sono ancora in giro.
Il che porta a un fatto banale: ci sono persone che pensano anche alle altre persone, e persone che ci fanno meno caso. Non sorprende e non sono certo io a rivelarlo al mondo.Non mi piace dividere in “buoni e cattivi”.

Tuttavia credo questo sia davvero il momento in cui fare attenzione a queste cose. La pandemia ha sconvolto quasi tutto delle nostre vite e del modo di fare business. Aziende già in difficoltà hanno ricevuto il colpo di grazia, la sopravvivenza economica è diventata la sfida per molti.
Come umani, in una situazione così difficile, è normale che accadano due cose: essere fragili e incappare in comportamenti poco corretti, essere “disperati” e abbracciare comportamenti e strategie poco corrette.
Per cui quello che penso tutti noi, impegnati in qualche modo nel business, dovremmo chiederci è: “perché facciamo quello che facciamo?”

Perché si fa impresa?

Nel 2011, Gary Hamel, pubblicò un libro che sarebbe diventato un bestseller: What Matters Now. How To Win In A World Of Relentless Change, Ferocious Competition, And Unstoppable Innovation. In italiano lo si trova con un titolo ancora più emblematico: 25 strategie per tempi difficili.

Oggi sono tempi difficili e molte delle riflessioni di quel libro, nonostante ormai dieci anni, sono ancora attuali. Ma c’è soprattutto un passo che ritengo attuale, là dove Hamel parla di come dovremmo pensare alle aziende e alle organizzazioni, andando oltre gli aspetti meramente economici. La domanda da cui parte è la seguente: “In un’economia dinamica, ci sono veramente delle ragioni per preoccuparsi se una determinata azienda sopravvive o muore?”

La risposta è molto articolata ma il punto principale esposto da Hamel è che il fallimento di un’azienda non incida solo sui fondatori, i dipendenti, gli azionisti, ma vada naturalmente a impattare su tutto l’ecosistema: città, fornitori, altre città, altre persone.
“Dunque”, dice “l’equivalente biologico del fallimento di una grande azienda non è la morte di un singolo orso polare o di un singolo ghepardo, ma il tracollo di un intero ecosistema o l’estinzione della specie, eventi che metterebbero in allarme quasi tutti i biologi”.

Per quanto Hamel si riferisca qui alle grandi aziende – è chiaro che le dimensioni sono proporzionali all’impatto – questo è un punto che la pandemia ha illustrato alle perfezione: siamo CONNESSI.

E questo nel bene o nel male.
Se fallire porta un danno che va ben oltre le persone coinvolte in un’impresa, è lecito, e bellissimo, aspettarsi anche il contrario: un’azienda che va bene, lavora bene, crea un impatto positivo diffuso e che si estende ben oltre le persone che lavorano o che vengono coinvolte (clienti).

Qual è la nostra sfida?

Vuoi vendere per il resto della tua vita acqua zuccherata o vuoi cambiare il mondo?” Questa è la celebre frase con cui Steve Jobs si dice avrebbe convinto John Sculley, ex presidente di Pepsi Cola, a diventare CEO di Apple nel 1983 (ruolo che ha ricoperto per ben dieci anni).

Mentre ciascuno di noi ha la responsabilità di scegliere in autonomia la propria missione, è bene che un assunto stia alla base: “non puoi arrivare alle persone, passando sopra le persone”.
Se il business è aiutare le persone a risolvere i problemi e divenire “versioni migliori di sé stesse” – mi rifaccio alla definizione che viene fuori dalla Jobs Theory – non possiamo creare bisogni o manipolare le persone.
È qualcosa che in un momento così difficile dovremmo tutti avere a cuore e farcene carico: pretenderlo, provarci in prima persona, diffonderlo.
Dall’ideazione di un prodotto al servizio, alla comunicazione con cui otteniamo persone potenzialmente interessate, al modo in cui chiudiamo le vendite.

Il tempismo è un’arma potente per vincere sui mercati. Ma questo non è il tempo. E no, non abbiamo decisamente bisogno di armi!

Michela Spagnolo è psicologa e psicoterapeuta, Mamma di Camilla, Co-Founder di Beople e responsabile della Business Design Academy. La sua missione è liberare il mondo del business dal superfluo e aiutare imprese, organizzazioni e professionisti a implementare processi semplici, efficaci, replicabili. È anche Autrice di Business Design per le Pmi, ha revisionato, tra gli altri, Value Proposition Design®, e curato l’edizione italiana di Creare Modelli di Business. Puoi seguire Michela anche su LinkedIn

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